top of page

L'eredità di Giacomo Matteotti

Aggiornamento: 12 apr

A cent’anni dall’assassinio, una lezione di incalzante attualità


di Diego Crivellari*


Ricorre quest'anno il centenario del rapimento e dell'assassinio di Giacomo Matteotti. Sabato 23 marzo a Fratta Polesine il Partito Democratico ha ricordato la figura di Matteotti con un'iniziativa pubblica organizzata dall'eurodeputata Alessandra Moretti, a cui hanno partecipato il segretario regionale Andrea Martella (qui il suo intervento), il deputato Andrea Orlando e il segretario provinciale Angelo Zanellato. Ha preceduto l'incontro la deposizione di fiori sulla tomba di Giacomo Matteotti nel cimitero del centro polesano.


Riportiamo di seguito un intervento di Diego Crivellari, responsabile del forum cultura e identità del Pd veneto e autore, con Francesco Jori del volume 'Giacomo Matteotti, figlio del Polesine' (Apogeo Editore, 2024)



Il socialismo di Giacomo Matteotti non è mai stato qualcosa di astratto, disincarnato, un discorso meramente ideologico, ma è stato piuttosto un ideale temprato dalle tempeste della storia, un progetto politico coraggioso che diventa pienamente leggibile sullo sfondo della storia italiana ed europea del primo Novecento, del suo concreto farsi e, ancora più in particolare, nel suo stretto collegamento alle vicende del mondo rurale padano e, naturalmente, di un territorio peculiare come quello polesano, con le sue ataviche miserie e le sue speranze di riscatto. Nelle Direttive del Partito socialista unitario della primavera 1923, così Matteotti delineava i principi e le idee-guida della forza politica di cui era diventato, da pochi mesi, dopo la nuova scissione socialista, il segretario: “Il Partito socialista unitario repugna dal metodo della dittatura e della violenza. Esso riconosce che in fatto la violenza non può essere cancellata dalla storia, e che occorre anche prevederla per difendersene; ma non può e non deve accettarla come metodo. Esso subisce in questo momento la dittatura di una fazione favorita dalla classe capitalista, ma a tanto maggiore ragione non può indicarla come propria aspirazione ideale. La guerra, che noi detestiamo tra le nazioni, neppure la desideriamo fra le classi perché non risolve definitivamente nessuna quistione, ma tutte le perpetua in un’alterna vicenda di oppressione e di distruzione dei migliori prodotti della civiltà e del lavoro. I socialisti credono invece condizione necessaria per lo sviluppo e l’emancipazione della classe lavoratrice, il metodo democratico e una atmosfera di libertà politica”. Conoscere Matteotti, conoscere la portata della sua eredità politica e ideale, significa potersi riallacciare consapevolmente ad una delle esperienze più alte del riformismo socialista nel nostro paese. E, per certi versi, può essere davvero il modo per restituire piena dignità ad una parola, “riformismo”, che negli ultimi anni è sembrata prima occupare uno spazio essenziale non solo a sinistra, per poi essere descritta come una parola “malata”, come un concetto ambiguo, una sorta di tradimento delle istanze progressiste. Occorre, tanto per cominciare, lasciare da parte le etichette e provare a ricostruire un itinerario che fu, per larga parte, originale e autonomo. Non soltanto nella collocazione all’interno del suo partito, con una certa allergia per le dinamiche ferree delle “correnti”, ma anche nel pensiero e nella prassi. Matteotti può essere considerato come l’iniziatore di una visione moderna della socialdemocrazia che, in Italia, molto probabilmente, e per un insieme di motivi politici, storici, culturali, si esaurì sostanzialmente con lui, con un’esperienza bruscamente interrotta che non conobbe veri eredi neppure dopo la Seconda guerra mondiale, quando il socialismo tornò a dividersi e vide l’emergere di leader influenti come Nenni, Saragat, Craxi. Da un lato, il riformismo del Psdi saragatiano, nato dalla scissione di Palazzo Barberini – sarà questo il partito in cui militeranno i figli di Giacomo, Giancarlo e Matteo – diventerà presto sinonimo di moderatismo e subordinazione alla posizione dominante della Democrazia Cristiana, dall’altro il Psi che sposerà, dagli anni Cinquanta in avanti, una linea “autonomista” e si allontanerà dal vecchio retaggio del massimalismo, lo farà ispirandosi di volta in volta a filoni di derivazione azionista, liberalsocialista ecc. Emblematico, in questa prospettiva, può risultare il saggio Il vangelo socialista di Bettino Craxi e del sociologo Luciano Pellicani, che apparve per la prima volta su “L’Espresso” nell’estate 1978, contributo teorico (e polemico) con cui i socialisti rivendicarono la netta rottura del loro partito con la tradizione giacobina del marxismo-leninismo nel nome di un socialismo libertario e antistatalista, richiamandosi al pensiero di Proudhon. L’evoluzione politica del Psi, con l’approdo di Craxi alla guida del governo nel corso degli anni Ottanta, porterà in seguito il partito verso le sponde di un riformismo liberale, ben lontano da un progetto socialista di società e anche da quegli “elementi di socialismo” da introdurre nella realtà italiana che, per il leader del Pci Enrico Berlinguer, rappresentavano gli obiettivi perseguibili da una forza di sinistra che si candidasse a governare un paese inserito nel blocco occidentale. Del resto, il percorso politico e culturale di Matteotti, spezzato improvvisamente e – proprio per questa sua tragica interruzione – forse decisivo nella mancata maturazione di una vera socialdemocrazia “di sinistra” in Italia può, se interpretato in tutta la sua, per certi versi, profetica valenza, gettare luce anche sulle (mancate) trasformazioni del Pci in seguito al crollo del muro di Berlino. La svolta della Bolognina voluta da Occhetto nel 1989 e le successive evoluzioni degli eredi del Pci non prenderanno mai, di fatto, in considerazione la possibilità di creare una moderna forza socialdemocratica nel nostro paese (eventuale trasformazione che implicava non a caso l’avvio di una seria revisione culturale e la riscoperta di lezioni alternative come quella incarnata da Matteotti), oscillando tra diverse ipotesi, il partito post-comunista, il partito radicale di massa, il partito democratico “all’americana”, nessuna delle quali prevedeva tuttavia un posizionamento chiaro del nuovo soggetto nell’alveo del socialismo democratico. Matteotti è (anche) il socialismo che è mancato all’Italia, lungo il corso del Novecento: da un lato, la piena accettazione del metodo democratico, la visione antitotalitaria, l’ancoraggio alla tradizione del socialismo europeo; dall’altro, la politica-progetto, la radicalità di un progetto di emancipazione, la centralità della cultura, l’attenzione per il territorio.


L’uomo politico Matteotti nasceva su uno sfondo familiare e sociale particolare come quello di Fratta e del Polesine tra Otto e Novecento, ma nasceva anche, lo ricordiamo, come rigoroso e appassionato studioso. Il suo primo tratto di originalità, legato alla sua formazione, risiederebbe proprio nella sua capacità di coniugare la lotta per il diritto e la lotta di classe, coniugare cioè una concezione garantistica del diritto, di ascendenza liberale, e una concezione socialista della lotta di classe, in cui la trasformazione in senso socialista della società avviene – prima ancora che in sede di competizione elettorale – con lo sviluppo e il potenziamento graduale delle organizzazioni del proletariato (comuni, cooperative, sindacato) e con l’educazione delle masse.


Il socialismo matteottiano è il frutto di un lavoro incessante, che parte dal basso e modifica gradualmente i rapporti di forza dentro la società, abituando i ceti subalterni al governo locale e alla tutela concreta dei propri interessi.


Nella maturazione della sua concezione socialista, Matteotti resta coerentemente marxista e riformista, ma non è mai fatalistico o rinunciatario. Il suo “gradualismo” identifica la rivoluzione, l’unica rivoluzione che sia concepibile senza affidarsi alle scorciatoie della demagogia, con un processo reale, concreto, che modifica nel tempo i rapporti di forza tra le classi. Egli non prende quasi parte a lotte correntizie dentro il suo partito, non si appassiona alle dispute dottrinarie, ma cerca di preparare concretamente, con la lotta politica, il terreno per la formazione di un nuovo blocco sociale che comprenda, con gli operai delle città del nord e con i contadini del sud, un ruolo da protagonista – vera novità – per il bracciantato della Padania. Questa attenzione al mondo contadino, considerato come elemento propulsore della rivoluzione e riserva della democrazia, partendo dal ruolo del Comune, è certamente un punto di originalità nel pensiero e nella pratica politica di Matteotti.   


 L’uomo politico polesano, come noterà il grande economista liberale Luigi Einaudi, “aveva l’abito mentale dello studioso”, che lottava per “l’elevazione di tutti gli uomini”, non per sostituire l’oppressione di una classe ad un’altra. Matteotti ebbe uno spiccato interesse non soltanto per gli studi giuridici, ma anche per le discipline economiche, finanziarie e tributarie, stimolato in questo dall’esempio del fratello Matteo, promettente studioso di economia scomparso precocemente. Per Giacomo, era essenziale che i lavoratori imparassero a dirigere la cosa pubblica, cominciando dagli enti locali, dotandosi di una adeguata preparazione tecnica e culturale, base necessaria per affrontare seriamente le nuove responsabilità che si prospettavano e i problemi della vita amministrativa. Siamo nel 1920, quando il giovane deputato scrive in un testo appositamente redatto per le autonomie locali Nel Comune socialista. Manuale per gli amministratori degli enti locali: “Molti dei nostri compagni hanno un sacro terrore delle parole Patrimonio, Bilancio, Conto residui, Imposte ecc. Sembra loro che si tratti di cose difficilissime o inutili, da abbandonarsi agli impiegati comunali o governativi, i quali poi profittano per addurle come argomenti misteriosi contro le attività socialiste. Bisogna invece persuadersi che si tratta di cose assai semplici: capite una volta, non si dimenticano più. E sono, d’altra parte, cognizioni assolutamente indispensabili per bene condurre qualsiasi amministrazione di Comuni, di Province, di Cooperative, di aziende agricole o industriali, e in qualsiasi economia, borghese o comunista. I lavoratori devono impadronirsi di questa materia, così come essi conoscono l’uso del martello, l’uso dell’aratro o l’uso di una macchina nelle officine”.


Matteotti è un anti-giolittiano, un anti-trasformista, avverte l’influenza della migliore cultura europea del Novecento, non solo marxista, e di intellettuali come Labriola e Salvemini; egli è capace di innervare il proprio marxismo con motivi liberali: la difesa dello stato di diritto, come è stato detto, ma anche la conduzione di battaglie liberiste in economia contro quel protezionismo governativo che si traduceva troppo spesso in profitto per pochi grandi produttori e in reale miseria per le masse contadine. Giacomo, per esempio, è il primo a diffondere tra i socialisti italiani le idee di John Maynard Keynes sul dopoguerra in Europa e sui rischi di una pace punitiva, che avrebbe fatalmente spinto la Germania a coltivare propositi di riarmo e revanscismo contro i vincitori. In ambito internazionale, arriverà a rappresentare i socialisti italiani in convegni e dibattiti sull’Europa post-bellica (le riparazioni della Germania, i debiti di guerra ecc.). La concezione rigorosamente pacifista, anti-imperalista e anticolonialista colloca Matteotti in una posizione originale nel quadro complessivo del socialismo europeo della Seconda Internazionale.


Matteotti è il primo dirigente del movimento operaio a respingere in blocco il fascismo come ideologia basata sull’esaltazione della violenza e sull’uso sistematico di essa, attraverso la sua testimonianza concreta di vita e di azione, ma anche compiendo una lucida analisi politica e intellettuale del fenomeno. Egli non cede neppure quando parti del movimento socialista e del mondo sindacale sembrano orientate a ricercare un compromesso con il fascismo, inseguendo una chimerica normalizzazione dei rapporti con l’ex socialista Mussolini. Matteotti è il dirigente del movimento operaio che, prima e più di altri illustri dirigenti e teorici, si dimostra in grado di comprendere chiaramente come la difesa delle conquiste civili e sociali del movimento operaio italiano dovesse passare attraverso la difesa intransigente del Parlamento e della centralità del Parlamento come effettivo baluardo della democrazia e del diritto.


La pista di indagine sulla natura del fascismo aperta da Matteotti e proseguita da Gaetano Salvemini porterebbe fino alle opere di autori, tra loro diversi, come Angelo Tasca ed Ernesto Rossi. Il socialista polesano ha dato un contributo non effimero allo studio e alla comprensione del fascismo, stimolando possibili itinerari di ricerca e affinando quella originaria concezione dello squadrismo come reazione agraria che certo risentiva, soprattutto nei primi tempi, del particolare angolo visuale costituito dal Polesine dei braccianti e dei patti agrari. Tra coloro che, in tempi recenti, hanno reso giustizia a Matteotti e posto l’attenzione sul punto di vista rappresentato dal giovane deputato circa la natura del fascismo e la sua tendenza totalitaria spicca il nome del massimo studioso italiano del fascismo, Emilio Gentile, che nel volume Totalitarismo 100. Ritorno alla storia si sofferma sull’espressione di uno “Stato asservito al partito”, con cui Matteotti inquadrava il fenomeno fascista nella sua volontà di imporre il monopolio del potere politico nella società e, appunto, nello stato, ad ogni livello.


*Diego Crivellari è autore con Francesco Jori del libro 'Giacomo Matteotti, figlio del Polesine' (Apogeo Editore, 2024)




bottom of page