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1924-2024. Giacomo Matteotti e gli Stati Uniti d'Europa

Aggiornamento: 11 apr

di Andrea Martella



C’è un filo che lega l’iniziativa di oggi, questa giornata che abbiamo voluto dedicare alla figura e al pensiero di Giacomo Matteotti a ormai quasi cento anni esatti dal suo barbaro assassinio, e gli appuntamenti che ci attendono nelle prossime settimane. A cominciare, come ovvio, dalle elezioni dell’8 e 9 giugno, quando voteremo per rinnovare il Parlamento Europeo.


Quel giorno saremo chiamati a decidere del presente. Contribuiremo, con le nostre scelte, a disegnare i nuovi equilibri europei, dai quali dipenderanno le concrete condizioni di vita di quasi 459 milioni di cittadini.


Ma il presente e il futuro – ecco il filo che vedo – hanno basi solide se poggiano sulla consapevolezza del proprio passato e della propria storia. Se attingono a una memoria capace di contribuire a definire una robusta e forte identità.

Allora oggi ci ritroviamo qui non per una semplice celebrazione, per rendere omaggio a una figura che pure ha tantissimi motivi per essere ricordata nel modo più alto e solenne. No. Siamo qui perché siamo convinti che un Paese senza memoria non esiste. Siamo qui perché ci sono pagine della nostra storia da leggere e rileggere, perché possono contribuire ad illuminare il cammino che è davanti a noi.


Tra queste pagine, ci sono sicuramente quelle scritte da Giacomo Matteotti. Scritte con le parole e le idee messe concretamente nero su bianco. Ma anche attraverso l’azione politica e l’esempio morale.


A cominciare dalla sua attività di amministratore, come Consigliere provinciale di Rovigo, come dirigente della Lega dei Comuni socialisti, come Sindaco di Villamarzana e contemporaneamente – perché la legge elettorale dell’epoca lo consentiva – Consigliere qui a Fratta Polesine e in diversi Comuni della provincia.

Queste esperienze lo portarono a mantenere sempre un rapporto profondo con la sua terra. Era un radicamento non solo di tipo affettivo o culturale: era economico e sociale.


Cresciuto in una famiglia della buona borghesia agraria, Matteotti fu sempre straordinariamente attento ai problemi dei braccianti del delta del Po, costretti a vivere in condizioni di povertà estrema. La lotta alle disuguaglianze sociali, per l’affrancamento degli ultimi dalla miseria, soprattutto attraverso l’istruzione, era un suo assillo.


Insieme a questo impegno, Matteotti si distingueva, in quei difficilissimi anni, per la determinazione che metteva nel denunciare, in modo tanto puntiglioso e circostanziato quanto coraggioso, le violenze fasciste che si intensificavano in tutta questa zona, come nel resto d’Italia. In questo senso fu davvero “l’oppositore più intelligente e irriducibile” del nascente regime, come lo definì un’altra straordinaria figura di intellettuale ed antifascista, Piero Gobetti.


Matteotti non ebbe mai un’esitazione. Vide prima di altri che quella mussoliniana non sarebbe stata una parentesi, ma che sarebbe diventata una lunga dittatura. E non smise mai di battersi per difendere la libertà e le istituzioni. Fino a quell’ultimo discorso, non a caso definito da Mussolini “mostruosamente provocatorio”, del 30 maggio del 1924, alla Camera dei deputati, in cui denunciò i brogli e il clima intimidatorio che avevano contraddistinto l’ultima campagna elettorale, e riaffermò il ruolo centrale e insostituibile del Parlamento.

Fu un discorso, come è facile immaginare e come riportato dalle cronache, ripetutamente interrotto dal vociare e dagli insulti dei deputati fascisti. Furono parole che per lo stesso Mussolini avrebbero meritato, rispetto a quelle interruzioni – così scrisse su “Il Popolo d’Italia” due giorni dopo, il 1 giugno – “qualcosa di più tangibile”.


Quel “qualcosa” non tardò a venire. Il prossimo 10 giugno saranno cento anni da quel giorno. Sappiamo cosa avvenne su Lungotevere Arnaldo da Brescia, vicino casa sua, mentre stava andando alla Camera. Conosciamo il nome dei sicari di Matteotti e chi ispirò il suo assassinio. Conosciamo le “ragioni” – ammesso si possano chiamare così – che stavano dietro la decisione di eliminare una voce così forte, così ingombrante, così pericolosa.


Pochi mesi dopo, con il discorso del 3 gennaio del ’25 e le leggi “fascistissime”, Mussolini mostrò in pieno il volto della dittatura, di un potere assoluto che arrivò ad impedire agli italiani di votare e di riunirsi in partiti e libere associazioni, che diceva loro cosa poteva essere stampato e letto, chi poteva avere una cattedra per insegnare e chi no, cosa si poteva dire e cosa no.


Ecco perché parlare di Giacomo Matteotti non potrà mai essere solo una “celebrazione” ma sarà sempre un modo per affrontare il presente e guardare il futuro. Un futuro rispetto al quale Matteotti dimostrava grande lungimiranza.

Terminata la prima guerra mondiale capì meglio di altri, infatti, che una pace esageratamente punitiva nei confronti della Germania – fu la cosiddetta “pace cartaginese” – avrebbe provocato la rinascita del nazionalismo tedesco in forme estreme, cosa che puntualmente avvenne.


Convinto che le fortune di una nazione non potevano tradursi nello sfruttamento di un’altra, mantenne sempre una forte impronta europeista e fu tra i primi a parlare di “Stati Uniti d’Europa”. Una prospettiva che per lui avrebbe dovuto sostituirsi, come scrisse, “alla frammentazione nazionalista in infiniti piccoli Stati turbolenti e rivali”. In fondo questi termini sono estremamente attuali, tanto che la posta in gioco alle prossime elezioni europee passa proprio da qui, partendo dalla situazione in cui ci troviamo dal 24 febbraio di due anni fa, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.


Una situazione in cui, come ha detto il Presidente Mattarella qualche tempo fa, “in Europa in questo momento sono in corso, contemporaneamente, due guerre, su piani diversi ma strettamente connessi: quella che vede l’Ucraina aggredita dalla Federazione Russa nella sua integrità territoriale, e una guerra di valori, in cui sono in gioco tutti gli elementi che caratterizzano l’odierna esperienza occidentale, a partire dalla libertà”.


Ecco perché la posta in gioca è molto alta.

Da una parte ci sono i valori della cultura liberale, democratica, occidentale. Quelli dell’apertura, dell’incontro e dell’integrazione tra le persone e i popoli. Quelli trasferiti dalle nostre Madri e dai nostri Padri fondatori dell’Europa in un progetto e in una “casa comune” capace di coniugare pace, democrazia, diritti, sviluppo e uguaglianza. Dall’altra parte il retaggio della malattia più nefasta e causa di guerra del Novecento: il nazionalismo. L’egoismo dei singoli Stati, la chiusura in se stessi, il sovranismo che alza muri e barriere, che non si rende conto di come sia impossibile rispondere in questo modo alle sfide globali. E che non per caso è più o meno apertamente schierato con Putin, al punto di avallare elezioni che non sono state né libere né trasparenti.  


E allora se è un bivio, quello di fronte al quale ci troviamo, dipenderà anche da ognuno di noi prendere la direzione giusta. Il risultato del voto dovrà fare in modo che la prossima legislatura sia davvero quella delle riforme.

Quella di una chiara accelerazione lungo la strada dell’integrazione europea, per rendere l’Unione più efficiente, coesa, solidale e rappresentativa. Più forte, autorevole e incisiva sulla scena politica mondiale.


Perché non ha torto chi osserva che sì, l’Unione è stata capace di prendere decisioni importanti per colpire economicamente la Russia e aiutare militarmente l’Ucraina, ma ha anche mostrato la sua strutturale inadeguatezza – il conflitto in Medio Oriente ne è ulteriore prova – ad affrontare le sfide di un sistema internazionale che è tornato a produrre guerre.

Si tratta allora di lavorare per ridurre, fino ad eliminare, la differenza tra l’Unione europea com’è e come dovrebbe essere.

Per una vera Unione politica.

Con politiche di bilancio e di coesione condivise.

Con maggiori competenze di politica sociale e del lavoro.

Con una strategia energetica unitaria.

Con una politica estera, di difesa e di sicurezza comune.

Capace di una vera e concreta solidarietà sulle politiche migratorie, iniziando quindi col riformare il tristemente noto regolamento di Dublino.


Dopo di che, è evidente: consegnare finalmente più competenze e ambiti di intervento all’Unione sarebbe un successo solo sulla carta, se poi restasse paralizzata dalle attuali procedure decisionali. Per fare davvero le riforme, ne serve una su tutte: quella dell’architettura decisionale europea.


Iniziando da un ruolo più ampio della Commissione e del Parlamento europeo.

E liberandoci dal cappio del diritto di veto: è indispensabile sostituire la regola dell’unanimità con il voto a maggioranza qualificata, in pressoché tutti i settori.

Perché la democrazia richiede capacità di decisione. E l’Europa deve essere in grado di fare questo: decidere. Per offrire soluzioni tempestive ai problemi delle persone.


Anche in questo modo, disegnando istituzioni più efficienti, la prossima legislatura può davvero segnare il momento di un “nuovo inizio” europeista.

Verso il completamento del percorso. Verso la svolta federale. Verso quegli Stati Uniti d’Europa ai quali anche Matteotti guardava.


Per un’Europa protagonista sulla scena globale non attraverso l’uso della forza, pur essendone attrezzata, ma attraverso le regole, il diritto, la cultura, un sistema sociale di cui essere orgogliosi e un modello di sviluppo sostenibile ed inclusivo.

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