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Una riflessione sul terzo mandato

Aggiornamento: 21 mar



A trent’anni dall’introduzione dell’elezione diretta dei Sindaci e a venticinque da quella dei Presidenti delle Regioni, dovrebbe essere cosa normale, per una classe dirigente attenta e rispettosa degli assetti e degli equilibri istituzionali, valutarne gli effetti e prendere in considerazione eventuali correttivi.


Le democrazie, infatti, possiedono un’architettura, fatta di pesi e contrappesi, che limitano la concentrazione dei poteri e pongono la legge al di sopra di ogni possibile arbitrio del “sovrano”, così da impedirgli di agire nel proprio particolare interesse.


A questo proposito, non è stata una bella pagina quella a cui abbiamo assistito in queste settimane, con un dibattito sul terzo mandato – nel caso di Zaia sarebbe il quarto – che l’altro giorno il Senato ha definitivamente bocciato.


Il limite dei mandati, è opportuno ricordarlo, è stato introdotto come temperamento di sistema. Come “punto di equilibrio”, secondo una sentenza del Consiglio di Stato ripresa dalla Corte Costituzionale, “tra il modello dell’elezione diretta dell’esecutivo e la concentrazione del potere in capo a una sola persona... che può produrre effetti negativi anche sulla par condicio delle elezioni successive” e finanche “un rischio di regime”. Tanto che limiti di questo tipo sono presenti nelle grandi democrazie in cui è prevista l’elezione diretta dei titolari di poteri esecutivi, dagli Stati Uniti alla Francia.


Torniamo allora all’inizio, alla valutazione di effetti e possibili correttivi. Quali conseguenze ha provocato l’elezione diretta sulla vita dei Consigli comunali e delle Assemblee legislative regionali? Si possono riscontrare aspetti distorsivi nelle funzioni di controllo e anche di indirizzo? Si sono creati attorno ai Presidenti, che con le loro dimissioni azzerano anche i Consigli, dei coaguli impropri di interessi, tali da alterare le stesse dinamiche economiche?


Una prima riflessione su cui interrogarsi riguarda la progressiva disaffezione al voto regionale, crollato al 41,6% in Lombardia e addirittura al 37% nel Lazio, nonostante l’avvento dei social media abbia cambiato radicalmente la comunicazione, diventata sempre più personale e spesso non mediata da quel “terzo potere”, carta stampata e Tv, che in passato fungevano da “cani da guardia” del potere. Un problema serio, che andrà acuendosi con l’avanzare dell’Intelligenza Artificiale e con le difficoltà sempre maggiori ad arginare le fake news, a distinguere il vero dal falso.


È però soprattutto l’istituto del Consiglio regionale, un’assemblea legislativa e non un semplice organo amministrativo, ad essere praticamente scomparso dalla scena. Come anche i consiglieri di maggioranza, diventati quasi yes man senza parola.


Per tutto questo, di fronte al preoccupante restringimento della partecipazione alla vita pubblica e alla perdita di fiducia verso la politica, in particolare da parte dei giovani, l’argomento populista “lo vogliono i cittadini”, riecheggiato negli ultimi tempi, non è stato il miglior biglietto da visita per chiunque abbia a cuore le istituzioni democratiche.


Affrontata in questo modo, la questione del terzo mandato, unita alla proposta del premierato, rischia di prefigurare modelli istituzionali che puntano sull’uomo forte privo di contrappesi, estendendone i tempi di permanenza in carica e comprimendo il ruolo delle rappresentanze elettive. Un’alterazione profonda del modello costituzionale decisamente non raccomandabile, per non aggravare lo stato di salute della nostra democrazia.

 

 

Andrea Martella

Ivo Rossi

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