Sono statti presentati in Consiglio regionale i risultati della Commissione speciale di Inchiesta sul Covid. La Commissione istituita nel 2021 su proposta del Partito Democratico. L'obiettivo, afferma la relatrice del PD, la consigliera Vanessa Camani era "comprendere meglio cosa sia realmente accaduto nei drammatici mesi della seconda ondata, da ottobre 2020 a marzo 2021, mesi in cui la nostra Regione è stata letteralmente travolta dal virus, segnando record di contagi e decessi".
Questa di seguito la posizione del gruppo PD in Consiglio regionale
Sappiamo perfettamente che le analisi ex-post non riescono mai a cogliere perfettamente tutte le sfumature, il clima particolare e pure il sentimento collettivo in cui tali decisioni sono state assunte, ma possiamo forse imparare qualcosa chiedendoci quali altre direzioni avrebbe potuto prendere la storia se fossero state compiute scelte differenti, perché 8.282 morti da ottobre 2020 a marzo 2021 non sono un fatto ordinario, neppure nella straordinarietà della pandemia. È indubbio che non esisteva, e non esiste, un manuale d’istruzioni per maneggiare il virus, ma è innegabile che dopo la prima ondata avevamo individuato strategie e consolidato metodologie di gestione della salute pubblica che potevano esserci di grande supporto per affrontare altre fasi critiche: task force, piani di sanità pubblica costantemente aggiornati, sistemi informativi moderni e strutturati, sistema di biosorveglianza, analisi e report periodici. E ancora DPI in abbondanza, espansione della capacità diagnostica molecolare e disponibilità rilevante di test rapidi, attività di contact tracing rafforzate, sequenziamenti, e persino ampliamento dell’organico.
Eppure non siamo stati in grado, in questa Regione, di metterci al riparo dal virus e ne siamo stati travolti in misura pure maggiore della prima ondata.
Perché?
Noi siamo convinti che nella fase più acuta della diffusione del virus in Veneto, e almeno da novembre, avrebbero dovuto essere definite misure di contenimento più rigorose, a partire dalle limitazioni generalizzate ai contatti personali: il regime di restrizioni ormai famoso come “zona rossa”.
Perché questo non è avvenuto?
Durante le audizioni della commissione d’inchiesta abbiamo appurato come ci siano state molte ombre sull’invio dei dati al Ministero della Salute da parte del sistema regionale, quelli che facevano scattare in automatico il passaggio in “zona rossa”, in particolare in riferimento all’indice “Rt”, che certifica il livello di diffusione del virus. Ma anche sul numero dei posti di letto di terapia intensiva, parametro decisivo per valutare la capacità di tenuta del sistema sanitario, abbiamo la convinzione che siano stati comunicati in quantità eccedente rispetto alla realtà, con i famosi “posti letto attivabili”, definizione mai pienamente chiarita neppure durante le audizioni.
Così come su un utilizzo in parte improprio, certamente non prudente, dei test antigenici rapidi per la diagnosi a personale del comparto sanità e dei pazienti più fragili.
Probabilmente, dunque, il Governo non era nelle condizioni per verificare, tramite indicatori, il reale livello di diffusione del virus in questa Regione.
Ma se a Roma potevano non sapere, certo non si può dire lo stesso delle istituzioni regionali, che a partire da aprile 2020 avevano acquisito autorità e potere per imporre autonomamente regimi restrittivi più stringenti.
C’è una responsabilità piena del presidente Zaia rispetto alla pervicace volontà di restare in zona gialla, a tutti i costi.
In una prima fase, con un atteggiamento ampiamente aperturista e permissivista. Zaia era il primo tra tutti i presidenti di regione a chiedere di riaprire presto, di riaprire tutto. In una seconda fase negazionista, arrivando a ridurre la gravità della situazione con argomentazioni a dir poco ridicole. E questo impianto rimarrà fino alla fine, fino a dicembre 2020 quando intervennero le restrizioni nazionali.
Quanto ha inciso su questa impostazione la pressione dell’opinione pubblica? Quanto ha pesato la necessità di ripartire del mondo produttivo locale? Quanto ha influenzato questa scelta il desiderio politico di restare “il presidente più bravo nella lotta al virus”?
È possibile che abbia pesato di più il bisogno personale del presidente Zaia di non ammettere di aver sbagliato rispetto alla oggettiva necessità di bloccare i contagi con le restrizioni? È possibile che in quei mesi drammatici gli interessi economici e la ricerca del consenso abbiano prevalso sulla tutela della salute pubblica? Noi pensiamo di sì.
E allora, se è indubbiamente difficile assumere decisioni complesse in scenari inediti, sottoposti a pressioni e stress esterni rilevanti, è altrettanto vero che non ci si può sottrarre al giudizio su quelle scelte, non si può pensare di non doverne rendere conto.
Se esistono profili di natura penale e personale lo definirà eventualmente la magistratura. È indiscutibile però il giudizio sul piano politico: si doveva fare di più, si doveva avere il coraggio di assumere scelte anche impopolari, si doveva tenere la salute delle persone al primo posto.