Pubblichiamo le riflessioni di Alessandra Poggiani all’indomani del referendum “Alla semplice domanda «Volete proseguire il cambiamento?» – perché la domanda era questa, e gli italiani l’hanno capita perfettamente, molto meglio degli arzigogoli della riforma costituzionale – tre quinti del Paese hanno risposto: «No». E a votare «No» sono stati in gran parte quelli che ripetono sempre che l’Italia è un Paese di merda, che non cambierà mai…. L’Italia è un Paese che non vuole cambiare, ogni tanto l’Economist ci azzecca.” Parto da queste considerazioni (amare) di Anna Zavesofa, uscite a caldo su IL del Sole24Ore “I sogni non si devono avverare” e che hanno un fondo di verità, e ci tornerò, da ultimo. E, tuttavia, tutti noi che abbiamo fatto campagna “di strada” per il Sì, sapevamo che intorno a questo Referendum si stava consumando il più grande plebiscito forse mai tenuto su un Presidente del Consiglio in Italia, e che molti (troppi) cittadini si apprestavano ad andare a votare, con poca attenzione ai contenuti della riforma e con una gran voglia di dare un “segnale”. E, dunque, le prime domande da farsi sono quelle sull’operato del governo. Perché un governo che in tre anni ha cercato di dare molte risposte è diventato così impopolare? Se si guardano alcuni provvedimenti del governo Renzi, soprattutto se confrontati con quelli dei 5 anni precedenti, fra cui (e ne cito solo alcuni) la manovra redistributiva degli 80 euro, l’assunzione dei precari della scuola, il bonus ai diciottenni, i risultati del Jobs Act sul tasso di disoccupazione giovanile, la riforma del terzo settore e quella sulle unioni civili, sembra che il rapporto azione di governo / consenso non sia razionalmente bilanciato. Eppure, così è, e così è proprio in quella fascia d’età (i più giovani) che anche solo dal punto di vista della forma (mai tanti under 40 al governo del paese dal dopoguerra), avrebbero dovuto essere il blocco sociale di questo governo. E, ancora peggio, se si guarda al quadro internazionale, dove è stato evidente che il governo Renzi (non a caso alleato molto più concreto per Tsipras degli “altri sinistri” del Belpaese) ha portato, in questi mesi, l’Italia a sostenere le ragioni della crescita e della equità sociale contro quelle dell’austerità a tutti i costi. Eppure, tutto questo non ha avuto presa. Certo, si può obiettare che un 40 per cento di consenso non è poco, ma non possiamo non vedere che non è abbastanza (anche considerando che l’asticella la si è, da parte di chi oggi ha perso, volutamente alzata). La mia impressione è che Renzi abbia iniziato a perdere il suo consenso, nel momento in cui ha dovuto abbandonare Renzi. Nel momento in cui le promesse e i principi, sulle quali aveva fondato la sua leadership iniziale sono naufragate (o si sono molto compromesse) con la realtà del Palazzo. Renzi al governo ha dovuto (per condizioni oggettive, che tuttavia non sono mai una giustificazione agli occhi dell’elettorato) scendere a compromessi con le forze di una coalizione eterogeneamente “centrista”, contraddire il Renzi delle primarie nei metodi e certe volte nelle scelte, abbandonare a sé stesso un partito che nei territori spesso non interpretava affatto un nuovo modo di fare le cose (e si è visto nella campagna del Referendum), talvolta mosso da risentimenti e faide personali. E poco conta che si possa dire che “il fine giustifica i mezzi”, se si guarda come, in effetti, con tutti i vincoli imposti dal “metodo”, moltissime delle promesse fatte nel 2012 risultino mantenute. E poco conta, che – come si vede dall’analisi dei voti – non è certo dai distinguo “di sinistra” che è stato contraddistinto il voto (basta guardare le mappe del voto per vedere che le zone tradizionalmente più “rosse”, sono quelle che hanno dato più fiducia al Sì). Il consenso non ha solo basi ragionieristiche. Il consenso si fonda sulla credibilità e sull’empatia. E sulla coerenza dei modi rispetto alle promesse. Non so se sarà Renzi a tornare a fare il Renzi. So che di quel Renzi, e di quei principi e di quelle promesse di cambiamento, il paese ha ancora bisogno, perché le ragioni sono le stesse del 2012, anzi, forse oggi ne abbiamo qualcuna di più. E non si vedono altri interpreti all’orizzonte. Perché è vero, come ricordavo con la citazione in apertura, che l’Italia – forse – è un paese che “perlopiù” non vuole cambiare. Ma da questo “non cambiamento” quelli hanno più da perdere sono proprio quei giovani, quei ceti medi che hanno visto erodere un benessere che credevano acquisito, quelle fasce di confine che devono tornare avere un’opportunità. E non possiamo, per loro, non perseguire quel cambiamento. Almeno non possiamo non provarci. Il 5 dicembre non ha vinto il popolo contro le élite. Hanno vinto le élite. Perché solo chi è garantito ha da guadagnare nell’immobilismo. Basta guardare, distrattamente, in TV le facce che si susseguono nelle consultazioni dal Capo dello Stato. E non è solo per l’Italia (e sarebbe già di per sé una ragione importante) che dobbiamo continuare a provarci. Dobbiamo continuare perché è una visione del mondo complessiva, quella del progresso, della scienza, dell’eguaglianza, è la promessa dell’occidente che non possiamo non difendere. E’ un momento di svolta per il mondo, come l’abbiamo conosciuto. Possiamo imparare la lezione, recuperare le idee, rimetterci in cammino e continuare a provarci. Si sbaglia, si capisce la lezione, si riprova. Dobbiamo.
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