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Nuovi scenari del mercato del lavoro in Veneto

Aggiornamento: 23 mag 2022


Pubblichiamo la relazione introduttiva all'Agorà 'Il Lavoro nel Veneto che cambia' presentata da Bruno Anastasia

Introduzione

Ho il compito introduttivo di presentare alcuni elementi essenziali di inquadramento della situazione nel mercato del lavoro regionale. Ci provo scontando il fatto che ogni selezione di argomenti e problematiche è parziale. Il tema del lavoro e dei cambiamenti che lo riguardano è vastissimo, in fondo è come parlare di tutta la società e dei mutamenti che la investono.

Lascio sullo sfondo le grandissime questioni – i destini del capitalismo e del nostro modello di sviluppo – e cerco di focalizzare, sulla base delle informazioni disponibili, alcune dinamiche e criticità dell’attuale situazione.

Siamo oggi, in questa primavera, in un momento molto particolare: una transizione tra una crisi e l’altra, tra una crisi superata o in via di superamento (pandemia), seppur a prezzo di notevoli costi e fatica, e una crisi incombente (guerra in Ucraina) con una recessione temuta/annunciata che non deriva da dinamiche interne dell’economia ma da un’esogena drammatica che ci ricorda che la cattiva politica può sempre innestare il ritorno all’indietro e far deragliare le aspettative di miglioramento. Se guardiamo avanti, ai prossimi mesi, dobbiamo dar corpo alle valutazione sulle vaste conseguenze determinate dall’invasione russa dell’Ucraina. Dato che il lavoro è legato alla produzione e la produzione è legata alla divisione, anche internazionale, del lavoro, la deglobalizzazione - come esito delle vicende in corso (per quanto dalle dimensioni ora imprecisabili) - determinerà più svantaggi che opportunità. Faremo meno delocalizzazioni ma analogamente si comporteranno altri paesi. Avremo a disposizione un mondo più piccolo. Il tema non è certo limitato alla questione delle esportazioni verso la Russia (circa il 2% dell’export veneto) ma riguarda gli effetti a catena generati dalle chiusure dovute alla nuova situazione geopolitica. In particolare sappiamo bene che per il Veneto c’è uno specifico problema derivante dai rapporti con la Germania: la revisione, in un contesto internazionale mutato, del ruolo della Germania – grande acquirente di materie prime dalla Russia e grande venditore di beni intermedi e non solo sul mercato cinese – non potrà che avere conseguenze profonde per l’economia (la manifattura) veneta. I centri studi internazionali e nazionali stanno proponendo di continuo esercizi previsivi sull’impatto del nuovo scenario sulle aspettative di crescita, rivedendo e assestando di continuo le previsioni sul pil per l’anno in corso e gli anni seguenti: per il Veneto le ultime stime di Prometeia indicano una crescita nel 2022 del 2,4%, riducendo significativamente il livello in precedenza previsto, che oscillava sempre attorno al 4%.


Riguardo questi scenari previsivi non ho particolari e originali contributi da proporre (del resto è un tema su cui in Veneto non ci sono strutture che ne producono autonomamente e sistematicamente) e mi concentro, quindi, sull’analisi della situazione come si è venuta sviluppando negli ultimi mesi.

Se ripercorriamo quanto accaduto a partire dall’arrivo della pandemia, possiamo riconoscere che anche a livello economico e occupazionale abbiamo corso rischi enormi data la situazione inedita. Ma, almeno a livello aggregato, grazie a diversi fattori – in primis la scienza che ci ha messo a disposizione i vaccini e la solidarietà europea che ha supportato in maniera decisiva il grande e tempestivo dispiegamento degli interventi statali (basta ricordare i 20 miliardi di Cig nel 2020 e un importo prossimo alla metà nel 2021) - siamo riusciti, tutto sommato, a uscirne, pur avendo subito un impatto rilevantissimo, in termini di vite umane e dolore innanzitutto, e quindi economico e sociale (in particolare una contrazione del pil del 9% nel 2020, parzialmente recuperato - +7,2% - nel 2021). Anche da aspetti emergenziali, che ci hanno rimandato a un’economia di guerra, come il blocco dei licenziamenti, il sistema produttivo e occupazionale è uscito - grazie anche a una regolazione attenta e certo non in difetto di cautela - senza gli sfracelli sociali ipotizzati da chi aveva parlato, senza alcuna seria conoscenza delle dinamiche in corso, di milioni di licenziamenti. I dati di Veneto Lavoro (vedi il mensile La Bussola), Inps (Osservatorio Precariato), Banca d’Italia - Ministero del Lavoro (Nota sul mercato del lavoro) indicano un ritorno al turnover fisiologico senza particolari accelerazioni.


Del resto i dati disponibili più recenti segnano un consistente recupero dei livelli occupazionali:

- per il Veneto nel quarto trimestre 2021 (ultimo dato Istat disponibile a livello regionale) gli occupati sono risultati 2,14 milioni, livello del tutto analogo a quello pre-pandemia (quarto trimestre 2019: 2,1490 nel 2021 contro 2.149 nel 2019; i dati dell’Osservatorio di Veneto Lavoro, riferiti al lavoro dipendente, indicano una situazione rimasta positiva anche nei primi mesi del 2022;

- per l’Italia a marzo 2022 siamo ritornati sopra i 23 milioni, un valore che segna un sostanziale riallineamento con marzo 2019.

D’altro canto la disoccupazione, sempre a marzo 2022, si è assestata all’8,3 in Italia mentre nel primo trimestre 2021 superava il 10%. In Veneto tasso di disoccupazione nel quarto trimestre 2021 risulta pari al 5,3%, inferiore a quello precedente la pandemia: 5,6% nel quarto trimestre 2019, al culmine della fase espansiva iniziata nel 2014.

Tra il 2021 e il 2022 si era dispiegata una ripresa importante, dunque. A questi numeri di sintesi è indispensabile, per comprendere meglio la situazione, affiancare l’analisi delle tante problematiche e criticità sottese. Ne tratto velocemente quattro: la questione demografica, l’erosione del lavoro indipendente, la precarietà, il mismatch.


La questione demografica

Il lavoro cambia di continuo innanzitutto perché cambiano, qualitativamente e quantitativamente, le generazioni al lavoro. Le modificazioni demografiche sono, assieme a quelle tecnologiche, le più rilevanti nel ridisegno incessante del lavoro.

Dal 2014 siamo entrati in una fase nuova della nostra vicenda demografica: la popolazione non solo invecchia – come sapevamo da qualche decennio – ma anche diminuisce. Infatti la popolazione residente complessiva ha imboccato il trend decrescente nel 2014 tanto in Italia che in Veneto, dove eravamo giunti a sfiorare i 5 milioni mentre ora ci stiamo allontanando. E anche

la popolazione in età di lavoro sta diminuendo: in Italia eravamo sopra i 39 milioni un decennio fa, adesso siamo a 37 milioni e mezzo.

In questo contesto gli indici di ricambio della popolazione attiva sono destinati a peggiorare: per i prossimi vent’anni, salvo migrazioni, il rapporto tra consistenza delle generazioni in uscita dal mercato del lavoro e consistenza delle generazioni in entrata, peggiorerà continuamente e fortemente: in Veneto attualmente il rapporto tra la classe di età 65 (prossima all’uscita) e la classe di età 25 (in entrata) è pari a 130 a 100, diventerà 190 a 100 tra vent’anni (è il rapporto tra chi oggi ha 45 anni e chi oggi ne ha 5).

Il declino della popolazione in età lavorativa favorisce la dinamica del tasso di occupazione che infatti ha recuperato molto velocemente: per la prima volta a marzo, a livello italiano, abbiamo sfiorato il 60%; a livello veneto siamo arrivati al 67,4% nel quarto trimestre 2021 con il tasso di occupazione femminile che ha toccato per la prima volta il 60%. Questi progressi del tasso di occupazione sono parzialmente illusori, perché ottenuti anche come conseguenza del calo della popolazione. La riduzione del denominatore comporta un miglioramento del tasso anche se il numeratore (il livello di occupazione) resta fermo. Per questo non dobbiamo più utilizzare il tasso di occupazione (o non dobbiamo dargli soverchio valore).

Le implicazioni sociali di questa situazione, se vogliamo vederle, sono evidenti.

Contando solo sulle dinamiche endogene non c’è nessuna possibilità di cambiare a breve questa situazione. Il tasso di fertilità totale (numero medio di figli per donna) – in Veneto 1,29 nel 2021, in Italia 1,25 - è molto difficilmente modificabile. Istat adotta ipotesi, per il suo scenario mediano, che si cresca fino a 1,4-1,5 figli per donna ma non è sufficiente e forse è ottimistico. Modificare questi dati non è affatto semplice, anche perché le motivazioni sottostanti ai comportamenti non sono affatto solo esclusivamente economiche. E in ogni caso, nei prossimi vent’anni gli eventuali cambiamenti nei tassi di fertilità non potranno avere alcun effetto sulla popolazione in età lavorativa. Perciò per impedirne il declino l’unica possibilità è contare sul saldo migratorio, vale a dire sull’attrazione esercitata dai nostri contesti produttivi per le occasioni di lavoro che possono offrire, per il Welfare disponibile e per tutto quanto rende interessante l’Italia e il Veneto rispetto ad altri contesti.

Quest’anno per la prima volta dopo oltre un decennio si è fatto un “Decreto flussi” appena decente (69.700 ingressi: e non si tratta solo di nuovi ingressi perché vi è inclusa una quota di reingressi di stagionali), ed è stato sufficiente per sollevare immediati mal di pancia. In realtà saldi migratori positivi sono un imperativo ineludibile (anche immaginando di riuscir a frenare l’emigrazione stabile di forza lavoro italiana) e pongono tutti i conseguenti problemi quanto alle politiche di accoglienza e integrazione. Rispetto alle quali abbiamo solo due scelte: farle bene (nella legalità, nella trasparenza) o male (fingere che il problema non ci sia, proseguire con le regolarizzazioni cervellotiche rifiutando una programmazione ordinata e normale etc.).


L’erosione del lavoro indipendente e la qualità dell’imprenditoria

Il recupero occupazionale osservato ha una caratteristica netta e rilevante: riguarda esclusivamente il lavoro dipendente. A marzo, per la prima volta in assoluto, i lavoratori dipendenti hanno superato in Italia i 18 milioni. Nel quarto trimestre 2021, per la prima volta, i dipendenti in Veneto avevano superato quota 1.700. Il trend dell’occupazione indipendente invece è assolutamente meno brillante. In Italia alla vigilia della crisi finanziaria del 2008 i lavoratori indipendenti erano 6 milioni, oggi sono 5 milioni e in Veneto 422.000 (media 2021). Dell’asciugatura progressiva del lavoro indipendente se ne può dare un’interpretazione positiva: scomparsa di molte posizioni marginali, residuali, tipiche di un’economia poco moderna, poco sviluppata. In questo modo assomigliamo un po’ di più, come struttura dell’occupazione, agli altri grandi paesi capitalistici. Ma la flessione in corso suggerisce anche altri interrogativi. Per un’economia moderna, basata sulla conoscenza, la quantità e qualità degli imprenditori è un fattore fondamentale. A lungo si è riconosciuto il Veneto come ambiente caratterizzato da una forte propensione all’imprenditorialità, come contesto favorevole al lavoro autonomo. E’ stato vero in passato negli anni ’70 e ’80. Ma è vero ancora oggi? Il rarefarsi delle vocazioni imprenditoriali consegna un problema rilevante, di cui i ben noti problemi delle successioni familiari sono la punta dell’iceberg. Problema che la politica della flat tax per i lavoratori indipendenti - un trattamento fiscale superprivilegiato esteso anche a redditi medi - non ha affatto risolto.


Il lavoro a termine, la precarietà e la dignità del lavoro.

Il lavoro costituisce un rapporto sociale fondamentale ed è un rapporto che chiede dignità, rispetto, reciprocità. Ma come si possono coniugare dignità, rispetto, reciprocità con l’instabilità dei rapporti di lavoro, con la loro breve durata, in altre parole con la loro “precarietà”?

Accettiamo, per semplificare, l’associazione tra “posti di lavoro a termine” e “precarietà” (in realtà non tutti i posti a termine corrispondono a posizioni fragili: vedi il caso dei dirigenti o dei professionisti; né, d’altro canto, tutti i posti di lavoro a tempo indeterminato sono “stabili”: sappiamo benissimo, da tante analisi dell’Osservatorio di Veneto Lavoro, che da sempre, per licenziamenti 0, più frequentemente, dimissioni una quota oscillante tra il 40 e il 50% dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato non supera i tre anni di durata. La durata media dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato oscilla, nel settore privato, attorno ai 7 anni; nel pubblico 18-20 anni. Aggiungiamo che si tratta di valori e di tendenze che nell’ultimo decennio non hanno evidenziato tendenze a ulteriori contrazioni delle durate, anzi.

Ritornando ai dati sui lavori a termine, occorre notare che spesso, nel dibattito pubblico, c’è un fraintendimento sui dati, mal capiti e peggio commentati. Paradossalmente da quando abbiamo a disposizione più informazioni, relative sia al flusso (movimenti nel tempo di assunzioni e cessazioni) che al livello (numero di occupati o posti di lavoro) succede di ascoltare o leggere analisi che saltano alle conclusioni trattando senza ritegno dati di flusso come fossero dati destinati a ripercuotersi automaticamente sugli stock, evitando ogni fatica di comprensione delle complesse dinamiche reali (che l’80 o anche il 90% delle assunzioni riguardi rapporti di lavoro a tempo determinato non significa affatto che automaticamente si abbia un incremento degli occupati a termine).

Il dato più rilevante, per controllare le dimensioni del lavoro a termine, è indubbiamente la sua incidenza sul totale del lavoro dipendente. Secondo Istat (indagine mensile sulle forze di lavoro) in Italia a partire dall’inverno scorso siamo tornati sopra i 3 milioni di occupati a termine: esattamente come nel 2018 -2019, prima della pandemia. L’incidenza sul totale dei dipendenti nei mesi di febbraio e marzo è stata pari al 17,5%, un paio di decimali sopra la quota pre-pandemica. Ma il dato Istat non consente disaggregazioni per singola tipologia contrattuale e non consente di capire effettivamente quali contratti di lavoro dipendente si stanno espandendo. Dobbiamo perciò analizzare i dati Inps (settore privato) o i dati pubblicati dall’Osservatorio di Veneto Lavoro (derivanti dalle comunicazioni obbligatorie delle imprese per ogni movimento dei rapporti di lavoro) per entrare nel merito e scomporre gli andamenti per le quattro tipologie contrattuali che contano effettivamente: tempo determinato, lavoro stagionale, lavoro intermittente, lavoro somministrato.

Sulla base di questo lavoro troviamo che:

- c’è stato un “rimbalzo” consistente post pandemia delle posizioni di lavoro a termine: ciò è ovvio e dipende largamente dal fatto che con la pandemia sono diminuite sia le assunzioni (flusso) sia le posizioni di lavoro a termine (stock); d’altro il tempo indeterminato non è “rimbalzato” semplicemente perché non è “caduto”, essendo stato largamente protetto dalla Cig. Ma per rimbalzare bisogna prima cadere;

- rispetto a prima della pandemia (confronto 31 dicembre 2021 con 31 dicembre 2018, dati Inps) le posizioni di lavoro con contratto a tempo determinato (in senso stretto) sono cresciute al Sud, trainate dal settore costruzioni ma anche dalla ristorazione, mentre nelle grandi regioni del Nord il livello risulta ancora inferiore sia a quello pre-pandemico sia a quello precedente il cosiddetto “decreto dignità”;

- che soprattutto al Nord, e anche in Veneto, è aumentato (rispetto ai livelli prepandemici) l’utilizzo del lavoro somministrato e un rimbalzo significativo ha interessato il lavoro intermittente (che sappiamo essere ritornato in auge dopo l’abbandono, nel 2017, dei vecchi voucher per il lavoro occasionale);

- che il lavoro stagionale segue soprattutto l’evoluzione del turismo e pertanto ha subito contrazioni importanti nel 2020 e recuperi nel 2021.

Certo, anche accertato che non siamo di fronte a particolari esplosioni di precarietà, la questione di come contrastarla – ridurla o controllarla – rimane intatta. Su un fenomeno non si interviene solo perché cresce ma comunque se viene giudicato negativo. Lo stesso si può dire del sommerso: va comunque contrastato anche se in diminuzione.

Il tema è quindi come intervenire efficacemente e fattivamente, senza sbandierare risultati impossibili (la perfetta stabilità del rapporto di lavoro è possibile solo in un regime totalmente statalista) e tenendo conto che strutturalmente il nostro sistema economico prevede imprese instabili/precarie (imprese nuove, imprese dedite ad attività stagionali) cui corrispondono posti di lavoro altrettanto incerti nelle prospettive temporali.

Possiamo certamente imparare molto dalle diverse normative di contrasto attivate negli anni precedenti. La riforma Fornero (2012) ha arginato la prima esplosione del lavoro intermittente e il Jobs Act (2015), oltre a realizzare il più efficace (l’unico) intervento incentivante su larga scala il tempo indeterminato, ha radicalmente contrastato le collaborazioni a progetto: ma nel contempo si è allargato il lavoro occasionale regolato con i voucher. La normativa (2017) che per evitare il referendum ha abolito il sistema dei voucher: ma per reazione si è allargato il ricorso al contratto a termine ed è ritornato in pista il lavoro intermittente. Il “Decreto dignità” (2018) che ha gettato sabbia sugli ingranaggi del lavoro a termine e del somministrato: ma ha innescato la crescita delle tipologie di somministrato a tempo indeterminato (tra cui lo staff leasing) e ha visto un ulteriore allargamento dell’intermittente. Non bastano dunque le buone intenzioni. Le motivazioni alla base dell’espansione della domanda di lavoro a termine sono numerose (sostituzione, turismo, prova, riorganizzazione dell’impresa etc.) e non semplicisticamente coercibili riducendo le tipologie contrattuali.

Certo si tratta di affinare la regolazione rispetto a obiettivi perseguibili. Attualmente moltissime sono le disposizioni finalizzate a contenere i rapporti di lavoro a termine. Possiamo dividerle in tre tipologie:

  1. definizione di limiti di tipo qualitativo: a questa tipologia di regolazione appartiene la “causale” che il “Decreto dignità” ha rimesso come necessaria in determinati casi di contratto a termine (durata superiore a un anno; proroghe). Non è la soluzione migliore: lascia ampi margini di incertezza e possibilità di contenzioso;

  2. disposizioni di tipo quantitativo a carico congiuntamente di impresa e lavoratore (per il tempo determinato e il somministrato: durata massima di un singolo rapporto di lavoro a termine, numero massimo di proroghe, durata massima della successione di contratti, durata minima degli intervalli tra un rapporto di lavoro e il successivo; per l’intermittente: numero massimo di giorni in un triennio). Sono disposizioni volte a impedire la fidelizzazione tra lavoratore e impresa in un contesto di precariato protratto: vogliono evitare la trappola della precarietà “obbligando” il lavoratore a cercare altre imprese ma in questo modo lo obbligano anche a rinunciare a occasioni di lavoro;

  3. disposizioni di tipo quantitativo a carico esclusivamente dell’impresa (come le quote sul totale degli organici, numero minimo di rapporti trasformati): sono le più dirette e più facilmente controllabili per impedire un allargamento oltre le soglie volute dei rapporti a termine.

Occorre analizzare accuratamente l’efficacia e la coerenza di questa ampia serie di indicatori quantitativi di contenimento (a volte allargati dai Contratti collettivi di lavoro) ed eventualmente stringere i bulloni in ordine a obiettivi chiaramente indicati e fissati. Non occorre inventarsi soluzioni rivoluzionarie che poi non risolvono niente. Una volta definiti e rispettati questi limiti, il risultato che ne deriva non può destare particolari sorprese.

Certo, sappiamo bene che ci sono anche gli abusi: quote non rispettate, reiterazione di contratti contro le norme etc.. Qui si apre la partita dei controlli: che non sono difficili se si punta sui limiti quantitativi prima indicati. E molto si può fare, oltre che con le ispezioni, con la vigilanza documentale (che implica lo sviluppo e il miglioramento delle competenze pubbliche nel trattamento dei numerosi dati che l’Amministrazione possiede e usa scarsamente, a volte rifugiandosi dietro la scusa della privacy). Proprio su questo ha insistito molto e opportunamente la Relazione finale del Gruppo di lavoro ministeriale sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia.

Il tema della vigilanza è del resto rilevante e cruciale pure su un altro fronte, in genere trascurato, che al lavoro a termine solo in parte si sovrappone: ed è quello del part time. Esso si è nel corso dell’ultimo decennio enormemente diffuso. E tale diffusione solleva più di qualche interrogativo perché il part time non si articola solo in “volontario” e involontario” ma anche in “effettivo” e “sospetto” (mascheramento di full time, metodo di riduzione del costo).


Il mismatch

L’incontro domanda/offerta di lavoro non avviene sempre spontaneamente e tempestivamente grazie ai normali meccanismi di interazione sociale. E’ un fatto ben noto che ci può essere al contempo disoccupazione (offerta di lavoro non impiegata) e posti di lavoro vacanti (domanda inevasa). Le banche dati dei Centri per l’impiego del Veneto riportano a fine 2021 un volume di dichiarazioni di disponibilità, che attestano quindi uno stato di fatto di disoccupazione, di circa 400.000 unità: anche depurando dalle mancate uscite dallo stock e ipotizzando che le disponibilità effettive si dimezzino, il volume dell’offerta da collocare rimane assolutamente consistente. D’altro canto Unioncamere-Excelsior nel report con i dati previsivi per maggio di quest’anno attesta che “si conferma elevato il mismatch tra domanda e offerta di lavoro: sono difficili da reperire il 38,3% dei lavoratori ricercati, difficoltà riconducibile prevalentemente alla mancanza di candidati.”

Non è un problema nuovo. In proposito aveva già detto tutto – o quasi – Aris Accornero in un saggio molto brillante con Fabrizio Carmignani del 1986, I paradossi della disoccupazione: “La questione che attanaglia i governi è come ridurre i bisogni della domanda di lavoro alle necessità dell’offerta di lavoro; e come riuscirci in assenza di quel decisivo regolatore sociale che era la fame”.

Le ragioni del mismatch sono molteplici e hanno a che fare con dimensioni economiche e culturali (attinenti alla formazione del capitale umano). Si tratta di:

  1. problemi quantitativi: riduzione generale dell’offerta di lavoro nelle nuove fasce generazionali;

  2. problemi di disponibilità in relazione a determinate caratteristiche del posto di lavoro (soprattutto questione degli orari): sorgono perché la domanda di lavoro deve confrontarsi con i costi-opportunità dell’offerta e con i salari di riserva;

  3. problemi di competenze tecniche (mancanti) o trasversali (insufficienti: queste ultime contano quanto più il lavoro non è pura erogazione di energia fisica). Le competenze mancanti dipendono da fenomeni di path dependance degli itinerari professionali, da un’insufficiente collaborazione degli attori sociali (perché le imprese immaginano sempre che qualcun altro - la scuola? - sforni miracolosamente le professionalità richieste che cambiano continuamente; e d’altro canto la scuola immagina che la formazione firm-specific sia compito dell’impresa). Strozzature esistono sia dal lato dell’offerta (non si trovano candidati per determinati percorsi professionali) sia dal lato della domanda (i candidati ci sono ma non le strutture per formarli: è il caso, clamoroso a dir poco, dei medici, dove l’offerta potenziale non manca di certo - legioni di candidati si sono visti esclusi o hanno iniziato in ritardo il loro percorso sulla base di quiz discutibili - ma non è stata raccolta, per errori protratti di programmazione condivisi da Università, Stato e Regione).

  4. problemi di localizzazione (mismatch geografici: l’offerta non è presente laddove si esprime la domanda ed è rilevante l’attrito allo spostamento, dato ad esempio dagli elevatissimi costi degli affitti rapportati ai salari degli esordienti).

  5. problemi di informazione: anche se, data la diffusione, l’accessibilità e la capillarità della rete, non sono più rilevanti come un tempo.

Il mismatch non ammette soluzioni facili: l’incontro domanda/offerta si rivela per quello che è, non un puro scambio merci (ore di lavoro) contro denaro ma la costruzione di una relazione con implicazioni importanti, fondamentali, per la vita di una persona. In questo contesto le politiche attive - sostanzialmente formazione e accompagnamento - sulle quali si stanno investendo cifre importanti (Programma GOL) non possono essere immediatamente risolutive. Se immaginiamo che basta realizzarle secondo protocolli predefiniti e avremo sicuri risultati andiamo incontro a delusioni. E’ una materia non semplificabile. La tentazione di ricorre ad analisi-scorciatoia è ricorrente: di recente è divenuto di moda dare la colpa del mismatch (soprattutto per determinate attività) al reddito di cittadinanza (RDC). Ma a marzo 2022 42.126 residenti in Veneto hanno percepito il RDC. Si tratta di una cifra inferiore all’1% per cento dei residenti, e include minori, disabili e altre componenti esonerate da ogni possibilità di impiego. La quota di coinvolgibili nel mercato del lavoro è forse pari al 30%: significa 10-15.000 persone che – tra l’altro – in piccola parte sono già occupate. Ovviamente il RDC, essendo un’istituzione (come la NASPI, come tutti gli istituti del Welfare), condiziona il mercato del lavoro, il quale non può funzionare come se il RDC non ci fosse. Tutti gli istituti del welfare condizionano e modificano le valutazioni e le scelte degli individui. Ma da qui ad attribuire ai numeri del RDC la responsabilità del mismatch che osserviamo in Veneto, e che non è affatto un fenomeno nuovo, ce ne vuole di azzardo analitico. Una scorciatoia, appunto.


Conclusione

Concludo, pur consapevole che altri problemi non sono nemmeno stati sfiorati (questione salariale, tirocini, sicurezza sul lavoro, rappresentanza e contrattazione): impossibile svilupparli tutti adeguatamente nell’ambito di una breve relazione se non si vuole limitarsi ad elencarli.

In questi anni il Pd ha cercato di fare della serietà e della responsabilità, in opposizione al populismo, un suo tratto distintivo. Qualcuno ritiene anche troppo, io penso si tratti di un valore da coltivare e di una postura da perseguire. Avendo fiducia – e so che non sto dicendo una cosa pacifica e scontata - nelle capacità di comprensione e nell’apprezzamento sia dell’opinione pubblica in generale sia della nostra base sociale in particolare.

E’ utile quindi insistere sulla definizione e chiarificazione degli obiettivi, sui discorsi di verità senza troppe promesse, sull’apprendimento dalle politiche attivate (in fondo negli ultimi dieci anni siamo stati quasi sempre al governo: dovremo aver imparato molto). Sappiamo che non bastano analisi approfondite e corrette per individuare le migliori soluzioni ai problemi ma di sicuro partire da analisi sbagliate non aiuta e non è nemmeno indice di rispetto della serietà dei problemi.


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