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Il Veneto 'piccolo e bello' spiazzato dagli industriali


di Ivo Rossi


Il processo che ha dato vita alla fusione delle associazioni industriali di Padova, Treviso, Venezia e Rovigo ha il merito di aver reso trasparente una latente geografia economico/sociale che, a dispetto dei confini amministrativi, è andata affermandosi negli ultimi decenni: quel cuore del Veneto centrale, certificato anche dall’OCSE come una grande area metropolitana funzionale di carattere europeo. Allo stesso tempo ha dato una grande lezione alla politica veneta, attardata nel mito del policentrismo a-gerarchico e dell’anacronistico “piccolo è bello”, indicando nella crescita dimensionale - dalle imprese alla rappresentanza degli interessi e alle istituzioni - nell’aggregare, nel fare squadra e nel creare gerarchie funzionali e specializzazioni, un orizzonte necessario.


Si tratta di un fatto politico di assoluto rilievo che interroga la politica tutta, che sul palco del centro congressi di Padova si è rivelata ospite balbettante, chi preferendo buttare la palla in tribuna, vagheggiando allargamenti a Pordenone e a Belluno, chi immaginando improbabili Los Angeles del “fai da te” territoriale. Un fai da te improvvisato e casuale che, in assenza di governo, ha visto formarsi per coalescenza quattro aree: il Veneto metropolitano della PaTreVe, un cordone pedemontano del Grappa, il quadrante veronese con appendice vicentina, e il Veneto dei margini, dalla montagna al mare, passando per il lago a vocazione turistica.


Ma se anche il buttare la palla in tribuna è uno sport diffuso, le questioni poste implicitamente da Confindustria, quanto alla necessità di dar vita a nuovi processi di governance funzionale di questa area, al servizio della crescita dell’intera regione, è ormai aspetto ineludibile e attiene ai compiti primari per una politica che non si limiti a essere spettatrice impotente e rassegnata dei processi spontanei. L’abilità a commentarli e a costruirci immaginarie virtù identitarie non crea governo.


Siamo in ritardo probabilmente di alcuni decenni, ma la pandemia prima e la guerra in corso, così come i profondi mutamenti indotti dalla transizione ecologica dell’economia, rendono necessarie le scelte per consentire al Veneto di essere competitivo e giocare un ruolo anche nel futuro. Scelte che, solo per fare un esempio a noi vicino, l’Emilia-Romagna ha fatto per tempo e che oggi le consente di occupare il primo posto fra le regioni italiane nel ranking di competitività dell’innovazione e della conoscenza*, mentre la nostra regione, nonostante la qualità delle nostre università e di molte imprese, si colloca su molti indicatori addirittura al 4 o 5 posto in Italia. Certificando che oltre un decennio di politica che si limita ad assecondare i processi, anziché provare a guidarli, nel lungo periodo produce arretramento e perdita di ruolo. E non basta continuare a raccontarci in chiave domestica quanto siamo virtuosi o, con parola abusata, eccellenti. L’Emilia-Romagna, che nei giorni scorsi ha inaugurato alla presenza del Presidente della Repubblica Mattarella, il supercomputer Leonardo, quarto al mondo per potenza di calcolo, ha saputo non solo gerarchizzare le funzioni e le città, ma allo stesso tempo ha saputo farlo in modo cooperativo, assegnando ruoli funzionali diversi alle sue realtà provinciali. La linea di alta velocità fra Bologna e Milano, che ha portato ad un’ora la distanza fra le due città, è stata un potentissimo motore di sviluppo dell’intera via Emilia, avvenuto negli stessi anni in cui in Veneto, in nome di un campanilismo sovranista, l’alta capacità ferroviaria fra Milano e Padova è rimasta al palo, bloccata ancora oggi nel nodo insoluto di Vicenza. Senza pena di smentita si può parlare di trent’anni buttati, senza contare che non ha mai messo seriamente sul tappeto il collegamento con Bologna, indispensabile in chiave di collegamenti nord sud.


La storia dimostra che se le scelte non vengono fatte dalla politica, assieme necessariamente agli attori che operano sul territorio, queste saranno fatte da altri, le farà il mercato, e non sempre questo coincide con gli interessi di un territorio. Gli ultimi due decenni, con la politica regionale assente (concentrata sulla rincorsa di fregi UNESCO, dal prosecco al tocatì), abbiamo registrato il venir meno di funzioni strategiche fondamentali per la crescita, quali la perdita del sistema bancario e finanziario (che aveva supportato la crescita delle imprese nella seconda metà del novecento) e delle multiutility, strumenti strategici per la gestione delle reti, in cui il campanilismo e l’assenza di una leadership regionale ha privato il Veneto di un potenziale competitor nazionale. Il tutto mentre la vicina Emilia-Romagna vedeva crescere il ruolo bancario di BPER, di UNIPOL, del colosso Hera e del sistema fieristico. E senza grandi player difficilmente crescono gli investimenti in ricerca ed è più difficile attrarre capitali.


Fra le poche eccezioni positive di crescita dimensionale e gerarchizzazione delle funzioni, la creazione da parte di SAVE di un polo degli aeroporti veneti, e sul fronte culturale l’allargamento del Teatro stabile del Veneto. Troppo poco per una regione ambiziosa che è riuscita anche a dissipare il Sistema ferroviario metropolitano.


Riconoscere l’interesse a far diventare l’area fra Padova, Venezia e Treviso come il baricentro del sistema veneto, costruirvi la governance multilivello funzionale, senza attardarsi su prospettive di fusioni amministrative, è la sfida che Confindustria ha lanciato alla politica.


Una sfida che ci riguarda tutti, perché qui si misura la vera capacità di esercitare l’autonomia, non quella astratta quanto quella che è in capo alle nostre responsabilità.


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